“Dammene un altro”.
Jack la fissava con uno sguardo provocatorio, intenso, a tratti feroce.
Lei, mordendosi le labbra, si voltò di scatto e, strofinatasi in fretta le mani bagnate e ruvide sul grembiule, prese la solita bottiglia di scotch. Restò per brevi ma lunghissimi secondi con la bottiglia a mezz’aria, il braccio un po’ sollevato, ed il viso in un’espressione mista tra la sfida e la rabbia. Ma lui sembrò averla vinta. Anne abbassò di scatto l’avambraccio e a mezzo centimetro di distanza dal bicchiere versò nervosa ancora una volta quel liquido ocra che lo avrebbe prima o poi ammazzato.
Jack le bloccò il polso sul bancone e poi scoppiò ridere. Era il decimo bicchiere in due ore.
Fuori dal Crocodile Inn le pozzanghere erano piene di fango. Pioveva ininterrottamente da due giorni e ormai quasi non ci si faceva caso agli orli dei pantaloni inzuppati e alle scarpe indurite. L’aria puzzava di gas e benzina. Anne lavorava lì da qualche mese, da quando aveva deciso di andar via di casa. Non era mai stata felice con sua madre e suo nonno. Era stanca di sentirli urlare, sentirli imporre il loro volere. “È per il tuo bene” dicevano, ma intanto la chiudevano a chiave nella sua stanza senza finestre per farle superare la claustrofobia, o la lasciavano digiuna per tre giorni per prepararla alla sopravvivenza, come la chiamavano loro. Era stanca delle loro manie. E della violenza.
Voleva far la pianista, ma per mangiare era costretta a far la cameriera. Era gentile e simpatica con i clienti e ormai conosceva un po’ tutti i camionisti che facevan sosta lì prima di raggiungere il paese. Qualcuno la prendeva in giro per le orecchie a sventola che si vedevano quando legava i capelli, ma per il resto erano tutti abbastanza cortesi. Aveva uno sguardo pulito e timido e tutti in fondo la proteggevano.
Ma Jack no. Era capitato lì per caso, e vedendola al bancone, con quella fascia a righe in testa e un vecchio grembiule macchiato non aveva saputo trattenere battute cattive. Due ore tra risa beffarde e occhi puntati sul suo visino leggero. Jack puzzava di whisky, puzzava di sporco. Puzzava come la frutta marcita al sole, come pelle invecchiata nella merda.
Da quando era entrato nel locale Anne si sentiva a disagio, visibilmente.
Un cliente le chiese di portare del sapone e della carta igienica nel bagno e lei, dopo essersi chinata verso il pavimento forse per prendere le chiavi, lasciò il bancone per dirigersi verso il fondo della sala. Aprì uno sportello, prese carta e un flacone di sapone liquido giallognolo e sistemò tutto in fretta nella toilette. Stava tornando verso il bar quando Jack si alzò e ridendo, le infilò le mani sotto la gonna, con forza, davanti a tutti. L’urlo di Anne fu così atroce che tutti gli avventori presenti rimasero un attimo paralizzati. Da quelle labbra rosee e gentili era stato emesso un suono strano, misto a dolore e rabbia. Un grido di vendetta seguì. Dalla tasca del grembiule estrasse un coltello. Nessuno ebbe il tempo di fermarla, neanche Jack che ancora si muoveva derisore dentro di lei.
Una pugnalata allo stomaco e poi al collo.
Il vecchio cambiò espressione, gli occhi sgranati, stupiti. Dieci secondi di totale silenzio, l’aria già pregna di odore metallico di sangue. Poi Anne, estratto il coltello dal collo dell’uomo disse amara: “L’ho fatto io prima del whisky. È solo colpa tua, nonno.”
fabi
2 commenti:
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